Apprezzare a pieno il gusto di una birra, come di qualsiasi altro prodotto, non è una cosa banale. Non basta la prima impressione, anche se questa risulta decisamente importante nel nostro giudizio. Occorre conoscere le caratteristiche dello stile di riferimento, il produttore e la sua idea di birra ed infine le peculiarità del prodotto. Ma anche conoscendo questi aspetti, è molto probabile che altre variabili giochino un ruolo decisivo. La produzione di birra non è vincolata a particolari momenti dell’anno: si può brassare ogni giorno, dato che gli ingredienti sono sempre reperibili e questo vale per quasi tutti gli stili, eccezion fatta ad esempio per le fermentazioni spontanee che richiedono temperature specifiche e che quindi hanno una finestra temporale, nella quale possono essere prodotte, limitata.
Non solo la qualità della materia prima e la sua freschezza, ma le differenze (anche minime) nel processo produttivo e infine il confezionamento e la conservazione, possono far si che la stessa ricetta, prodotta dallo stesso birrificio in momenti diversi, porti a birre anche molto differenti tra loro.
Oggigiorno il ciclo produttivo, anche se rispetta tutti i crismi di un’artigianalità pura, grazie alla tecnologia e alla sempre più conclamata capacità dei birrai, può essere considerato costante e ininfluente nelle differenze dei vari batch. Se poi acquistiamo direttamente dal produttore o da rivenditori competenti, anche la conservazione non rappresenta un fattore determinate.
La freschezza della materia prima, in primis il luppolo, può essere ben valutata da chi ad ogni assaggio cerca di decifrare le varie sensazioni gustative. Non ci resta quindi che cercare di conoscere bene le caratteristiche della birra che stiamo gustando. Questo si può fare solo con l’esperienza, assaggiando più volte ed in differenti periodi. Ma come fare a capire, tra le tante possibili versioni assaggiate, qual è la più veritiera e corretta?
Un metodo “didattico” è fare un assaggio “verticale” della stessa birra. Questo significa assaggiare assieme vari lotti di produzione o differenti annate, cercando di valutarne le differenze. Non tutti gli stili di birra però possono essere valutati in questo modo. Non tutte le birre possono invecchiare con eleganza o più semplicemente, per alcune di esse, non ne vale proprio la pena. Molte birre infatti vivono della loro freschezza. Per semplificare prendiamo in esame tre aspetti: il grado alcolico, il livello di acidità e il tipo di lieviti utilizzati.
Generalmente le birre dal tenore alcolico elevato (dai 7% a salire), hanno anche una struttura che ben sopporta l’invecchiamento. In alcuni casi è anzi doveroso attendere per apprezzarle. Anche birre con gradazioni più contenute, ma nelle quali l’acidità è dominante (Lambic, Gueuze) possono facilmente sostenere il passare del tempo. Infine le caratteristiche date da certi lieviti, soprattutto quelli utilizzati per birre ad alta fermentazione, con il passare del tempo evolvono e rivelano aspetti particolarmente piacevoli.
Vorrei quindi condividere con voi una degustazione fatta nei giorni scorsi assieme ad una cara amica (la_baronessa_della_birra) proprio con lo scopo di valutare una birra, a me molto cara, e che racchiude nelle sue caratteristiche il potenziale per una buona evoluzione. Si tratta di una verticale di 5 annate di Orval ( 2014, 2015, 2016, 2019,2020), birra che porta il marchio dei prodotti dei frati Trappisti.
Prendo ora in prestito la perfetta descrizione che l’amico Mirco Marconi fa nel suo libro “Birra”. “L’abbazia di Notre Dame d’Orval è situata nella Valle della Gaume, in prossimità del confine francese, all’interno della provincia del Lussemburgo belga. Regione di dolci colline, boschi e corsi d’acqua, ospita all’interno della Forêt d’Orval l’omonima abbazia, la cui visione regala un senso di armonia, silenzio e pace, che nemmeno le presenze turistiche sempre più consistenti riescono ad alterare. L’abbazia venne fondata attorno al 1070 da monaci benedettini provenienti dalla Calabria. Tra gli storici c’è chi sostiene essi vennero chiamati dal Conte di Chiny, mentre altri ritengono che l’abbazia fu costruita per volere della Contessa Matilde di Canossa, che con il matrimonio con Goffredo il Gobbo, nel 1069, era diventata Marchesa di Lorena, regione nella quale il territorio di Orval ricadeva. L’abbazia venne consacrata nel 1124 e nel 1132 venne presa in consegna da una comunità di monaci cistercensi. Nell’Abbazia è viva la memoria di una leggenda su Matilde e da essa è nato lo stemma della birra di Orval, il pesce con l’anello in bocca, visibile sull’etichetta della birra”.
La Fontaine Mathilde Il monogramma di Matilde di Canossa sul muro di ingresso dell’abbazia
Durante i secoli alternò momenti di splendore a periodi di decadimento e nel XVII secolo aderì ai frati Trappisti dell’ordine cistercense, per finire poi distrutta durante la rivoluzione francese. Solo nel 1924, sulle storiche rovine, venne nuovamente ricostruita secondo l’attuale aspetto. Pochi anni dopo, a cura di laici e con l’intento di finanziare la rinascita dell’abbazia, nacque il birrificio. La prima cotta fu realizzata nel 1932. Il birrificio produce da sempre un solo tipo di birra da 6,2%, eccezion fatta per una versione più leggera (Orval Vert di 4,5%) prodotta solo per l’Ange Gardien, locale adiacente al monastero.
“Inizialmente l’Orval veniva fatta maturare in botti di legno che le conferivano il tipico sapore noto ancora oggi come Goût d’Orval, grazie alla presenza di lieviti spontanei del genere Brettanomyces. Oggi le botti sono state abbandonate. I luppoli impiegati sono solo di varietà aromatiche e sono cambiati nel corso degli anni: ora si usano estratto di luppolo e pellet in bollitura e coni nel dry-hopping, unico birrificio trappista ad aver adottato questa tecnica. Vengono in oltre utilizzati diversi tipi di lievito, per riprodurre il celebre Goût d’Orval. La prima fermentazione è condotta da lieviti di alta fermentazione che lavorano a temperature non elevate (attorno a 20° C), con bassa produzione di esteri. La seconda fermentazione avviene a 15° C in tank orizzontali con contemporaneo dry-hopping e a questo punto c’è l’inoculo di lieviti selvaggi selezionati negli anni ’40, contenenti un ceppo di Brettanomyces bruxellensis. L’uso di ceppi locali di lieviti può essere la ragione che ha portato alcuni a sostenere che il gusto dell’Orval abbia qualcosa in comune con le Saison prodotte nella zona con contaminazione di lieviti ambientali. La terza fermentazione è quella in bottiglia, effettuata con aggiunta di zucchero liquido e con il lievito primario; essa ha l’unico scopo di conferire la gassatura”.
Per la degustazione, siamo partiti dall’annata più recente, la versione del 2020. Si percepiscono sia al naso sia al gusto le note fresche del luppolo, accompagnate da uno speziato delicato. Decisamente dominanti l’amaro e la secchezza, che una gasatura finissima e quasi eccessiva va ad esaltare. La birra non ha particolari evoluzioni durante l’assaggio e lascia nel finale un amaro erbaceo molto lungo.
2019. Ancora ben presente al naso il luppolo, che nasconde alcune “puzzette”, preludio di ciò che mi attendo da questa birra, ovvero il carattere del lievito, anche se in questa versione non è ancora così caratterizzante. L’amaro risulta più acceso, il corpo più esile e la gasatura, sempre presente, diventa avvolgente. Il gusto erbaceo lascia spazio a note amare di radice.
2016. Finalmente l’aspetto brettato emerge e nobilita la bevuta. Al naso presenti le note di cantina, di cenere (quasi incenso) e, volendo prendere in prestito un termine dal mondo dei profumi, note di oud (resina ricavata da un legno, con nopte animali e leggermente affumicate). L’amaro risulta più armonico e meno invadente, accompagnato ancora da una gasatura che si è ben mantenuta. Affiorano sentori quasi fruttati, che ricordano lontanamente frutti rossi.
2015: molto simile alla precedente annata ma con la componente brettata più armonica. Al gusto riemerge la parte amara ed una nota di calore etilico fuori posto. Il finale è un alternarsi, bilanciato, di brettato, secchezza e amaro, quest’ultimo che porta verso a una sensazione di verde.2014: sempre più intense le note del Brettanomyces che si rivela con sentori accesi di cenere, polvere ed oud. L’amaro si è affievolito come la gassatura. La birra nel suo insieme risulta più morbida e con un finale amaro più armonico.
Tirando le somme, da questa degustazione, si delinea un ritratto più preciso della birra. Con il passare del tempo il colore non varia più di tanto, la schiuma risulta sempre presente e compatta anche se nelle versioni più giovani è pannosa e più duratura. L’amaro e la secchezza, dominanti nelle versioni (troppo) giovani, con il passare degli anni si affievoliscono e lasciano via via importanza alle note di cantina, sviluppate dal lievito Brettanomyces.