Birra: filtrazione, sogno o incubo?

Il fatto che una birra non debba essere filtrata è sempre stato uno dei punti fermi della produzione artigianale, che però si è ammorbidito a interpretazioni meno dogmatiche negli ultimi anni. Per converso, nei tempi più recenti, ormai tutti i birrifici industriali propongono almeno una birra non filtrata. I confini stanno diventando sempre più sfumati per questo che è, sarà bene ricordarlo, solo uno degli aspetti della qualità della birra. Il nostro collaboratore Tullio Zangrando, birraio di lungo corso, in questa articolo mette in prospettiva storica il tema della filtrazione, trattando un tema controverso con grande equilibrio ed obiettività (N.d.R.).

Doverosa premessa: tutto quanto segue si riferisce alle birre più diffuse, in particolare gli stili di bassa fermentazione come Lager e Pilsner, e non a quelle di stili meno comuni sul mercato (ma magari molto presenti nel settore artigianale), con particolare riguardo alle birre acide, per le quali valgono criteri di giudizio completamente diversi.

Le birre Trappiste sono rifermentate in bottiglia e quindi il lievito, presente sul fondo, le intorbida facilmente

“Filtration: dream or nightmare” (Filtrazione: sogno o incubo) è il titolo di un capitolo del libro  TASTING BEER di Randy Mosher , ripreso a pag. 179 del  2° volume di  BIRRA di Tullio Zangrando e Mirco Marconi. Si tratta  “di un argomento assai complesso” in quanto, secondo alcuni esperti, la rimozione dei lieviti e dei coaguli tanno-proteici  da una birra ben stagionata, soprattutto se chiara ed a bassa fermentazione, può contribuire al miglioramento del suo sapore, che diventa più fine e delicato. A ciò si aggiunge che un colore  brillante risulta sempre più gradevole alla vista di uno opaco, che assume toni grigiastri a causa dei fenomeni connessi con la nostra percezione visiva ( si può approfondire questo tema  anche su Wikipedia, alla voce colorimetria). Altri esperti sono però di parere opposto, e lamentano nelle birre filtrate, a confronto con quelle chiarificate solo per sedimentazione naturale del torbido, un impoverimento dell’aroma di luppolo , della “maltosità” e del “corpo”.

Le parole filtro, filtrare e filtrazione sono di origine etimologica incerta: secondo alcuni derivano dall’antico anglosassone filtr , che significava selezionare o separare: poi il nome passò al feltro , materiale costituito da fibre animali, che si usa prevalentemente per fare  i cappelli, ma può benissimo essere impiegato anche per illimpidire molti  liquidi. Nel settore birrario la filtrazione, dopo numerosi tentativi falliti, inizia a prender piede  nel 1874, con il brevetto depositato a Worms dal tedesco Lorenz Adalbert Enzinger : il suo dispositivo era formato da cornici (sostenute da un telaio),  all’interno delle quali si comprimeva  la “massa filtrante”, costituita da fibre di cellulosa. Il sistema conobbe un successo  di grande rilievo, al punto che la fabbrica Enzinger divenne per alcuni decenni una delle più grandi fornitrici di macchinari del mondo (poi anche di imbottigliamento), con filiali in diversi Paesi.  Successivamente i filtri furono perfezionati e oggi le fibre di cellulosa sono sostituite dai cosiddetti aiuto-filtranti ( farina di diatomee o “kieselgur”, quasi sempre a perdere), o anche da speciali membrane.

A ben vedere, l’idea di filtrare la birra nacque dall’esigenza di garantire ai consumatori finali  la qualità (soprattutto microbiologica) del prodotto: i più anziani, come lo scrivente, ricordano ancora il detto: “sole di vetro-onda di mare-birra non limpida-non ti fidare”. Prima di Enzinger, quando le birre erano chiarificate a lungo e solo per sedimentazione naturale in botte,  la birra non poteva mai essere  perfettamente limpida: così, che fosse offerta  a spina o in bottiglia (le lattine ancora non esistevano!), i consumatori non potevano essere sicuri della sua purezza e della sua buona qualità prima di averla assaggiata: infatti ancor oggi è praticamente impossibile distinguere, solo a occhio, se una birra è torbida perché contiene solo lievito o coaguli tanno-proteici (ed è  pertanto “sana” e godibile), oppure se si  è intorbidita perché  contaminata  batteriologicamente. Dal 1874 in poi fu dunque possibile valutare la qualità di una birra ancorprima di annusarla o di assaggiarla. Poco dopo si diffuse la pastorizzazione e le birre divennero  più stabili nel tempo: ma anche per queste un’eventuale torbidità permise ai consumatori (e permette tutt’oggi) di valutare almeno approssimativamente se una birra è stata lasciata invecchiare troppo a lungo sul mercato (gli intenditori, quando sono al supermercato, danno anche un’occhiata al termine minimo di conservazione, e scelgono la birra più “lontana da esso”, ossia di più recente confezionamento). E per la birra a spina, se  sottoposta a filtrazione, un’eventuale torbidità indica che l’impianto non è ben curato (si raccomanda di rifiutarla!). Insomma: da Enzinger in poi limpidità è stata garanzia e sinonimo di buona qualità.

Nell’immagine, da sinistra verso destra: birra lager filtrata, illimpidita con sedimentazione naturale, non filtrata.

Fino alla metà del secolo scorso alcuni mastri birrai erano ancora dell’opinione che la filtrazione finale della birra fosse qualcosa di “innaturale”. Ma allora la maturazione delle birre a bassa fermentazione durava ancora molti mesi: così esse avevano tutto il tempo di illimpidirsi spontaneamente. Poi la durata della stagionatura è andata progressivamente  riducendosi  (poche sono le birrerie che praticano ancora la filosofia dello Slow Brewing!) e la filtrazione è entrata nella consuetudine. Mentre al contempo oggi è molto, ma molto più facile evitare contaminazioni batteriche durante il processo di fabbricazione ed il confezionamento: ciò grazie ai sensazionali  progressi dell’impiantistica e delle tecniche di sanificazione.

La conclusione logica sarebbe dunque quella di NON filtrare la birra, anche perché il lievito in essa ancora contenuto è un ottimo anti-ossidante, e contribuisce in modo assai efficace a mantenere la freschezza del gusto e la purezza dell’aroma. La commercializzazione di birra di bassa fermentazione non pastorizzata o microfiltrata, come fanno le birrerie artigianali, ma illimpidita solo grazie alla lunga stagionatura a bassa temperatura,  oltre che essere indice di estrema cura dell’igiene, nel corso della produzione e del confezionamento,  è infine anche raccomandabile dal punto di vista ambientale a causa della mancata necessità di smaltimento degli aiuto-filtranti esausti.

Resta comunque il fatto che il gusto e l’aroma della birra sono più importanti del suo colore e della sua limpidezza e che nemmeno l’assenza di una fase di filtrazione finale è garanzia di qualità e bevibilità… come detto all’inizio: “l’argomento è assai complesso”!

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