I soliti ignoti: i mieli Millefiori

di Elisa Marini Diomedi

Passeggiando tra gli scaffali del supermercato, nel reparto miele e confetture, vi sarete forse accorti che le etichette che indicano semplicemente “Miele” sono pressoché assenti, e tutti i prodotti non categorizzati come “uniflorali” (ad esempio acacia, tiglio, o castagno) sono indicati come “millefiori”, termine che, come scopriremo a breve, può significare tutto e niente. Parlando di “Miele Millefiori” occorre innanzitutto una precisazione: è necessario l’utilizzo del plurale, i mieli millefiori, poiché non è possibile imbrigliare questo concetto in una definizione univoca; si tratta infatti di qualcosa di sfuggente, che proprio non si adatta a essere ritratto in maniera statica e immediata, di qualcosa che potrebbe e dovrebbe sorprendere!

Con “mieli millefiori”, intendiamo tutto ciò che non è strettamente identificabile come monoflorale, ma certamente non abbiamo fornito nessuna specifica informazione, poiché non si tratta di un solo prodotto, bensì di una miriade di possibili combinazioni di nettari provenienti da tutte le specie botaniche nettarifere bottinate dalle api in un determinato territorio.

Sul mercato italiano la dicitura “Millefiori” è conosciuta come una denominazione generica, destinata ad un pubblico che non ha preferenze delineate; acquistando un miele millefiori il consumatore si aspetta uno standard che incarni l’immaginario comune del prodotto miele quindi, nella maggior parte dei casi, un prodotto chiaro o ambrato, preferibilmente non cristallizzato, caratterizzato da odore e aroma corrispondenti al “classico” miele (odore dolce e caramellato, senza particolari note caratteristiche) e da un gusto naturalmente dolce, privo di note amare. Che dire allora di un millefiori estivo delle valli alpine con prevalenza di tiglio o castagno (aroma ed odore intensi, tra il cuoio e la trementina, con retrogusto amaro persistente), oppure di un millefiori dell’Appennino centrale con nettare di timo (odore pungente tra l’acetico e il caprino) o di santoreggia (tipica nota di muffa)?

Di fronte a prodotti come questi (descritti con termini volutamente poco invitanti) il consumatore impreparato resterebbe quantomeno sorpreso, se non interdetto. Quale sarebbe invece l’impatto di un miele “di carattere” presentato con un nome diverso, con riferimenti al territorio di origine e accompagnato da una presentazione delle sue caratteristiche organolettiche peculiari?

I concetti di “buono” e “cattivo” sono questioni di gusto personale e, soprattutto, di aspettative. Un miele per taluni sgradevole per altri potrebbe essere delizioso: è sufficiente farlo arrivare al giusto target di consumatori, descrivendone, giustificandone e valorizzandone le particolarità, in modo che attragga proprio coloro che sono interessati a quel tipo di prodotto.

Dalla seconda metà del secolo scorso si è assistito a un radicale cambiamento nel settore del consumo di prodotti alimentari. Oggi, infatti, le scelte dei consumatori non sono più orientate solo al soddisfacimento dell’equilibrio nutrizionale, ma si sono spostate verso criteri più edonistici e “raffinati”: possiamo permetterci di scegliere prodotti che ci appagano sul piano gustativo, dietetico, salutista o anche semplicemente per l’immagine e i simboli legati al consumo di un certo prodotto, o per la sua provenienza. Al tempo stesso la globalizzazione e i moderni sistemi di commercio rendono disponibili prodotti al minor costo possibile a parità di categoria merceologica, restringendo le nicchie di mercato di beni analoghi con costi superiori e segmentando il mercato, così che per ogni prodotto il consumatore si trova di fronte a svariate possibilità in funzione del potere di acquisto, delle necessità e delle aspettative del caso.

Questo quadro generale coinvolge anche il miele, la cui produzione e commercializzazione sul territorio nazionale si trova a fare i conti con la concorrenza di prodotti più economici provenienti dal mercato internazionale. Occorrerebbe quindi sviluppare strategie che da un lato tutelino i produttori locali e dall’altro permettano ai consumatori di scegliere in maniera consapevole, differenziando tipologie di miele con specifiche peculiarità, destinandole non a un pubblico generico ma agli estimatori di quel determinato aroma e sapore.

Le caratteristiche del prodotto miele, come già accennato, sono strettissimamente correlate al territorio di produzione, poiché derivano in larga misura dalle specie botaniche bottinate dalle api, che a loro volta risentono delle caratteristiche climatiche, pedologiche e geografiche del territorio. Questa situazione è regolamentata dalla normativa sul miele, che prevede due livelli di denominazione geografica, uno obbligatorio, ossia l’indicazione del Paese di origine, e l’altro volontario, che consiste nell’impiego di un’indicazione relativa all’origine geografica che identifichi una determinata regione o area territoriale di provenienza del prodotto.

Nel nostro Paese sono soprattutto le produzioni monoflorali a beneficiare di un forte spinta alla valorizzazione, infatti oltre il 60% delle produzioni nazionali è presente sul mercato con denominazione botanica monoflorale. Lo sviluppo di questo fenomeno, strettamente legato, come si è già detto, alle caratteristiche geografiche e vegetazionali del territorio, risente fortemente anche del fattore umano: gli apicoltori si adoperano per isolare le produzioni più pregiate, i commercianti riconoscono questo valore aggiunto e chi acquista tende a preferire questo sistema di diversificazione rispetto ad altri (denominazioni territoriali, produzioni biologiche ecc.), per non parlare di tutti coloro che, a vario titolo, sono entrati nel mondo dell’analisi sensoriale facendosi promotori delle peculiarità organolettiche dei mieli uniflorali.

Così, se ad oggi le produzioni uniflorali trovano sul mercato una collocazione ben delineata, la “questione dei millefiori” rimane aperta.

La principale difficoltà nel percorso di valorizzazione dei millefiori risiede proprio nella profonda variabilità interna a questa categoria: non si tratta di un solo prodotto ma di tanti quante sono le possibili combinazioni botaniche di provenienza, quindi di infiniti prodotti sotto un solo nome. I mieli monoflorali hanno tratto grande beneficio dalla promozione collettiva operata dai produttori che offrono mieli della stessa tipologia, così un miele di acacia o di castagno, per esempio, vengono riconosciuti in maniera univoca dal pubblico grazie al lavoro di valorizzazione fatto a monte. In questo modo caratteristiche che al primo impatto potrebbero risultare sgradevoli, come l’amaro del castagno o del corbezzolo, diventano pregi che il consumatore può riconoscere e ricercare (o evitare, secondo il suo gusto). I millefiori in questo senso sono rimasti in disparte, non potendo beneficiare dell’opera di categorizzazione e descrizione messa in atto per i monoflorali, complice il fatto che non esistono, o quasi, etichette recanti l’indicazione “Miele”, che avvalora la percezione dei millefiori come prodotti generici, non caratterizzati.

Il sistema più semplice ed efficace per dare il giusto valore e rendere riconoscibili i mieli millefiori potrebbe essere quello di sfruttare il concetto di “terroir”, termine che designa il legame esistente tra il prodotto agricolo e tutti i fattori geografici, pedoclimatici e umani, che ne assicurano l’unicità. I millefiori, infatti, sono in grado di fornire un’istantanea, inimitabile e irripetibile, del panorama botanico nettarifero presente in una determinata area in un determinato momento, ed è qui che risiede il loro fascino, il loro potenziale attrattivo; per questo motivo (e non solo) meriterebbero di entrare a pieno titolo nel novero delle eccellenze del nostro paese, in quanto manifesto della biodiversità e risultato dell’intima connessione che lega indissolubilmente l’uomo all’ambiente che lo circonda.

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