Cioccolato, all’origine della qualità

Quali sono i fattori che più influiscono sulla qualità e sulle caratteristiche di un cioccolato fondente di singola origine? Conta più il terroir (Il terroir del cioccolato) o il processo di trasformazione? E in quest’ultimo, quali sono le fasi più importanti? Difficile dare una risposta univoca a queste domande e, anche chiedendo a chi è del mestiere, si ottengono spesso opinioni piuttosto differenti. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

La genetica del cacao ha sicuramente un ruolo essenziale, determinando sia la quantità di polifenoli e metilxantine presenti (quindi astringenza e amarezza), che la presenza di composti aromatici particolari, che possono conferire note fruttate, speziate o floreali, pertanto diverse dagli aromi comuni del cioccolato, i quali hanno origine in tostatura grazie alla reazione di Maillard ed altre reazioni, a partire da precursori prodotti in fermentazione.

Caffeina e teobromina sono responsabili dell’amarezza, i tannini dell’astringenza del cacao

Le caratteristiche pedologiche e climatiche interagiscono con la genetica, plasmando il carattere del frutto. La fermentazione, infine, interviene riducendo amarezza e, soprattutto, astringenza e originando i precursori dell’aroma base del cioccolato. È stato dimostrato che la durata e l’intensità della fermentazione, i microrganismi coinvolti, il numero dei rivoltamenti della massa in fermentazione, sono tutti fattori importanti, in grado di avere un impatto gustativo.

La fermentazione delle fave di cacao è essenziale per ridurre l’amarezza e soprattutto l’astringenza del cioccolato

Ci spostiamo nella “fabbrica del cioccolato”, dove le modalità di processo sono altrettanto determinanti: le fasi di tostatura e concaggio per l’aroma del cioccolato, la raffinazione e ancora il concaggio per la texture. Premesso che da una materia prima scadente non si potrà mai ricavare un grande cioccolato è anche vero, però, che un cacao speciale ha comunque bisogno di una lavorazione accurata, in grado di esaltare le sue caratteristiche peculiari: l’artigianalità nel fare una tavoletta di qualità, consiste proprio nel modulare le diverse fasi produttive, soprattutto le più impattanti, in base alla caratteristiche della materia prima, cercando di tirarne fuori il meglio. La temperatura e la durata della tostatura possono cambiare nettamente il gusto di un cioccolato, così come il metodo di concaggio e la sua durata. Sono pochi i produttori che, con certosina pazienza, si dedicano a trovare le giuste combinazioni per ogni origine di cacao che trattano, facendo innumerevoli prove; molto più di frequente, soprattutto nell’industria, si tende a standardizzare i parametri di processo, andando così a livellare le differenze tra cacao in origine anche molto diversi.

Difficile invece definire in che misura, i vari fattori che precedono il processo di trasformazione, vadano a contribuire al gusto finale del cioccolato.

Ricordo che, anni fa, rivolsi questa domanda a Gianluca Franzoni, ovvero al creatore di Domori, colui che più di tutti contribuì, a partire da fine anni ’90, a definire un nuovo modo di intendere il cioccolato nel nostro Paese. A suo modo di vedere la genetica del cacao era il fattore di gran lunga più importante. Opinione non del tutto condivisibile, ma credo motivata dal fatto che le varietà di cacao più interessanti di Domori, provenienti da varie zone del Venezuela, erano state tutte innestate su piante coltivate nello stesso luogo, presso l’Hacienda San José, piantagione nella penisola di Paria, andando quindi, in pratica, ad ridurre drasticamente le differenze di terroir. Quindi per i suoi cioccolati Gianluca, in fondo, aveva ragione.

Vi propongo le opinioni raccolte da due tra i migliori produttori artigianali statunitensi (una più sintetica, l’altra più articolata):

– Shawn Askinosie, Askinosie Chocolate: “Le tre opportunità che abbiamo per influire sul gusto del cioccolato sono in piantagione, in tostatura e in concaggio”;

– Art Pollard, Amano Chocolate: “Di gran lunga la cosa più importante sono i trattamenti post-raccolta. Tutte le fave di cacao sono cattive se le assaggiamo appena raccolte dalla pianta, non importa quanto meravigliosa sia la sua genetica (la fava della cultivar Porcelana è forse la migliore  assaggiata fresca, ma ugualmente è una cosa che ti vien voglia di sputare).  La fermentazione riduce i tannini che conferiscono astringenza, ma al tempo stesso, se non condotta nel modo opportuno, può essere causa di difetti gustativi notevoli.  Il fattore che viene al secondo posto, io direi, è la genetica (che determina molti aspetti del gusto, come ad esempio la quantità di tannini), infine viene l’ambiente di crescita della pianta del cacao”.

Art Pollard (sulla sinistra) in un Laboratorio del Gusto a Terra Madre a Torino, alcuni anni fa

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