Il ritorno del Vermouth e l’eccellenza torinese

Il Vermouth, inteso come prodotto voluttuario, nasce verso la fine del Settecento a Torino, diventando la bevanda alcolica di elezione prima dei Savoia, e poi dell’aristocrazia e borghesia italiana. Alla fine dell’Ottocento diventa l’aperitivo per eccellenza, con la nascita del rito dell’Ora del Vermouth, celebrata ovunque in Italia ed apprezzata in Europa e nel resto del mondo nel
secolo successivo. Nella prima metà del Novecento è protagonista della miscelazione, elemento aromatizzante fondamentale di famosi cocktail internazionali come il Manhattan ed il Martini Dry, e degli italianissimi Americano, Milano-Torino e Negroni.
A partire dagli anni Settanta inizia una parabola discendente, che si associa anche ad un abbassamento della qualità dovuta all’ingresso sul mercato di molte aziende che vedevano nel vermouth il modo di salvare l’annata storta. A questo si aggiunge l’americanizzazione del mondo del bere con l’arrivo delle maxi discoteche e dei pub dove le bevande tradizionali italiane stentano ad imporsi perché associate ad uno stile di vita passato. A contrapporsi al declino, alcune aziende storiche che capiscono e colgono l’opportunità, investendo sulla loro immagine con pubblicità molto efficaci, creando un legame inscindibile ancora oggi con il prodotto. E’ il caso di Martini che proprio per ovviare al problema qualitativo incalza con la sua comunicazione “non chiedete un vermouth, chiedete un Martini” e del Punt e mes Carpano.
Negli anni più recenti c’è stata una forte riscoperta del Vermouth, aiutata dal gran ritorno alla moda della miscelazione classica, che ha generato la riproposizione di marchi storici e la nascita di piccole produzioni artigianali, con indubbio beneficio della qualità dei prodotti.
Ma che cos’è il Vermouth? A dispetto di quanto qualcuno possa pensare, si tratta di un vino aromatizzato e non un liquore: è infatti composto per tre quarti da vino, fortificato con alcol che viene aromatizzato con erbe e spezie e che contiene una percentuale variabile di zucchero per conseguire un equilibrio gustativo. L’erba più importante nella sua aromatizzazione è l’assenzio, botanicamente Artemisia, nelle due specie simili A. absinthium e A. pontica di cui vengono utilizzate le cime fiorite e la parte alta dello stelo.


Origine del vermouth
La sua origine, come si diceva in apertura, è torinese. Nasce infatti nel capoluogo piemontese nel 1786, ad opera di Antonio Benedetto Carpano, finalizzatore di un processo di aromatizzazione dei vini lungo secoli. Se del vermouth Carpano è stato l’ideatore, fu l’azienda Cora la prima a credere nel suo successo esportandolo per la prima volta nel 1838, mentre a Martini si deve la sua fama mondiale, grazie agli investimenti e alle intuizioni di marketing, fra tutte le terrazze Martini che impazzarono fra gli anni Cinquanta e Sessanta a Parigi, Milano, Barcellona, Londra e San Paolo.
Qui si dava appuntamento il jet-set e qui lavoravano alcuni dei barman più famosi al mondo. Cinzano invece giocò un ruolo di egemonia con i suoi prodotti in Italia nei primi decenni del Novecento, ricordando l’efficace pubblicità “Cin Cin Cinzano” che rese virale questo brindisi, ed infine, Casa Gancia, che rivestì un ruolo importante nell’evoluzione del vermouth, modificando la ricetta del Bianco, un prodotto destinato principalmente alle colonie, creando il primo prodotto dedicato ad un target ben preciso, quello femminile che poco gradiva la nota amara del rosso.

Il Vermouth di Torino diventa IGP
Sul finire del 2019 la grande tradizione del “Vermouth di Torino” ha avuto un’importante riconoscimento e tutela a livello europeo: la Comunità Europea ha infatti ratificato la nascita di questa prestigiosa IGP, dopo un iter burocratico iniziato nel 2017, definendo anche un rigoroso disciplinare di produzione. Questo prodotto per ora non ha eguali, infatti i vermouth di Chambery (Francia) e Reus (Spagna), al momento non hanno un disciplinare ratificato a livello europeo.
Questo disciplinare non nasce per affermare che il vermouth prodotto in Piemonte sia superiore qualitativamente al resto del mondo, ma semplicemente viene riconosciuto il suo ruolo fondamentale, forte di una storia secolare.


Il vino da utilizzare e il legame con il territorio
La prima cosa che viene sancita dal disciplinare è il forte legame con il territorio. Questo si riflette innanzitutto nella scelta del vino che è la materia prima principale, ovvero pari al 75% della composizione totale di un vermouth.
Il Vermouth di Torino potrà essere fatto esclusivamente utilizzando vini italiani, sia bianchi che rossi. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, non esiste nessun vincolo all’uso di questi ultimi, anche se la maggioranza dei vermouth “rossi”, utilizza vini a bacca bianca colorati con caramello di zucchero.
Molti hanno obiettato sul perché non si potesse utilizzare esclusivamente vino piemontese. E’ indubbio che, inizialmente, il vino utilizzato nel processo produttivo fosse esclusivamente regionale. Ma già dopo la metà dell’Ottocento, quando il vermouth divenne un fenomeno italiano e poi mondiale, fu chiaro che la sola produzione locale non potesse risultare sufficiente. Nel 1908 il Piemonte produceva 8 milioni di ettolitri di vino, ma si esportarono qualcosa come 9 milioni di litri di vermouth.
Nella sua monografia sul vermouth di Torino, di due anni antecedente a questo sorprendente dato, Arnaldo Strucchi (enologo di fama nazionale) parla chiaramente di vini pugliesi, siciliani e sardi utilizzati per la composizione del vino base, confermando come il moscato non fosse più il vitigno principale. Questo perché nel frattempo le uve Moscato erano diventate protagoniste di un
altro importante prodotto: l’Asti Champagne. Un vino spumante semi secco che riscuoteva ampi consensi e che, come si intuisce dal nome, traeva ispirazione dalla produzione francese.
Questa composizione caratteristica rimase anche nel secondo Dopoguerra, sia per una ragione di costi, sia per la maggiore facilità di aromatizzazione di vini, come ad esempio il Trebbiano, che risultavano di aroma neutro e non caratterizzati come il moscato. Inoltre il grado alcolico sensibilmente superiore dei vini del sud, permetteva un risparmio anche sulla fortificazione, in un periodo dove la il costo dell’alcol era decisamente superiore.
La presenza di vino piemontese è soddisfatta nella menzione “Vermouth di Torino Superiore”, dove il 20% della massa finale deve essere composta da DOC o DOCG di questa regione.


Il grado alcolico
La gradazione alcolica è stata fissata in minimo 16° per la versione base e in 17° per il superiore. Nel vermouth senza denominazione invece, questa rimane agli attuali 14,5°. Sempre Strucchi, nella sua monografia, parla di analisi condotte per conto di alcune aziende impegnate nell’Expo di Parigi del 1900 ed indica in 16,5 il grado medio di questi prodotti. La buona gradazione aiutava a preservare il prodotto al meglio durante il viaggio e dargli una struttura diversa. Il grado alcolico in un vino aromatizzato era (ed è tuttora) un indicatore di qualità percepito, specie se l’utente finale è il barman che deve mescerlo con altri prodotti alcolici e soprattutto con soda, il principale coadiuvante storico dei cocktail a base vermouth, che diluisce la bevanda così come il ghiaccio.

Ad onore del vero, in altri testi consultati per la stesura del disciplinare, come le opere di Luigi Sala (1897), Ottavio Ottavi e Antonio Rossi (1899), per il prodotto e consumato in loco si indica una gradazione inferiore, sui 14-15°,segno che la fortificazione era funzionale, fino alla fine dell’Ottocento, alla spedizione del prodotto. Nel nuovo secolo sia Strucchi (1906), che Maragliano
(1922) e Cotone (1930) affermano che il Vermouth di Torino di qualità deve avere un grado superiore, cosa che poi venne ulteriormente confermata da un Regio Decreto del 1935 che ne fissava la quantità in 15,5°, a prescindere dalla spedizione o meno. Pertanto fissando oggi il valore a 16°, si è riportato il Vermouth di Torino nella sua esatta collocazione storica.

Artemisia absinthium


Le erbe e le spezie
Un altro importante capitolo riguarda le erbe e le spezie che compongono la ricetta e in particolare l’Artemisia, l’elemento aromatizzante più importante.
La parola vermouth infatti deriva dal tedesco wermut, parola che definisce quest’erba aromatica, spontanea ed abbondante in Piemonte.
Da questa regione infatti dovrà provenire la totalità dell’assenzio usato per la ricetta, sapendo che a Pancalieri, a sud di Torino, famoso anche per la menta, esiste una coltivazione di questa pianta che probabilmente è la più grande al mondo. Molti produttori usano anche artemisie spontanea della Val Maira, Val di Susa e Valtournenche.
Nella versione Superiore il richiamo al territorio sarà ancora più forte, infatti la composizione della ricetta dovrà privilegiare, se presenti, le piante aromatiche della produzione regionale dando il vincolo di almeno due piante autoctone presenti nella ricetta. Ciò può essere un importante incentivo al recupero di terreni incolti ed allo sviluppo di attività lavorative per giovani
imprenditori.


Infine per sancire il definitivo ritorno della specialità alle sue radici, la produzione del Vermouth di Torino potrà avvenire esclusivamente nel territorio regionale, fatto salvo due deroghe, legate alla storia aziendale, per due produttori di origini piemontesi (Carpano e Sperone) che negli anni Cinquanta spostarono la produzione in Lombardia.


Zuccheri, dolcificanti e coloranti
Le quantità di zucchero presenti nel vermouth devono essere 130 grammi per Rosso, Bianco e Rosè, 50 per il Dry e 30 per l’Extra Dry. Queste dosi erano la base di partenza utilizzata in origine, ma il vermouth alla china, spesso etichettato anche come Vermouth Amaro, arrivava ad avere anche 180 o 200 grammi di zucchero per bilanciare la ricetta. La novità rispetto al precedente disciplinare di produzione è l’introduzione del miele come dolcificante. Per quanto riguarda la colorazione si potrà usare caramello (E 150). La maggioranza dei produttori sta optando per il 150a, ovvero il caramello naturale ottenuto con solo zucchero, ma è possibile anche utilizzare il 150d (il medesimo della Coca Cola) detto anche solfito ammoniacale.


Il futuro del vermouth

In conclusione finalmente i barman ed i consumatori italiani e stranieri avranno, negli anni a venire, la possibilità di miscelare o degustare liscio, cosa auspicabile, un prodotto che ha un codice produttivo ed una qualità certificata. Un grosso lavoro è stato fatto, ora tocca agli addetti ai lavori che dovranno proporlo ed argomentarlo nel giusto modo, perché tutto sarà stato inutile se poi il Vermouth di Torino non finirà nei bicchieri.
Sarà sicuramente una grossa opportunità per i piccoli e medi produttori, che avranno la possibilità di vendere i loro prodotti ad un prezzo superiore collocandoli nel settore del premium.
Questo perché le grandi aziende preferiranno continuare a produrre vermouth senza indicazione, per poter gestire meglio, e senza eccessivi vincoli, la materia prima vino, a fronte dei grandi volumi destinati ai mercati esteri.
Lunga vita al Vermouth di Torino!


Fatevi il vostro vermouth
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