Il Parmigiano Reggiano è davvero tutto uguale?

di Mirco Marconi e Maicol Sacchetti

Siamo certi che la sola lettura di questo titolo farà arricciare il naso a qualcuno: “ma come il Parmigiano Reggiano tutto uguale? Ma certo che no! C’è quello di montagna e quello di pianura, quello ‘normale’ e quello delle vacche rosse, ecc. ecc.”

Molti consumatori in effetti sono ben informati di queste cose; altri che vivono nella zona di produzione hanno, perlomeno, un “casello” di fiducia, dove vanno a rifornirsi direttamente allo spaccio e sono abituati a quel sapore e sanno che acquistandolo altrove il formaggio risulterà differente. Ma c’è un rovescio della medaglia: molti il Parmigiano Reggiano lo acquistano al supermercato, spesso quello in offerta che tanto è garantito con stagionatura minima 22 mesi ed è comunque e sempre buono. “Alla fin fine sì, ci sono differenze, ma non così rilevanti… l’importante è che ci sia il marchio e poi parliamo comunque di un prodotto di alta qualità”.

È nostra convinzione che nell’immaginario dei consumatori il “Re dei formaggi” è rappresentato al singolare e non al plurale, come una “moltitudine”. Sta lì, solido e monolitico, e pochi notano le sfaccettature che pure esistono.

In realtà l’argomento “diversità nel Parmigiano Reggiano” è piuttosto complesso. Talmente complesso da far sì che, per molti anni, si sia preferito commercialmente associare al nome Parmigiano Reggiano una sola idea di prodotto, tutto uguale e tutto ugualmente buono, senza distinzione di merito. Solamente nel nuovo millennio, gli operatori del settore hanno riconosciuto quale poteva essere la vera forza di questo formaggio, la sua diversità.

Ciò permette di uscire da una trappola, quella di essere assimilato ad una commodity, una categoria di prodotto caseario al quale possono appartenere lo stracchino o la mozzarella, dove la provenienza e il produttore non sono poi così importanti. In un mondo consumistico e omologante, grazie all’idea di diversità, il Parmigiano Reggiano può invece riacquistare la sua originale fisionomia e singolarità.

Un caseificio dove si produce Parmigiano Reggiano (foto di Paula Gonzales Thomas)

Quali sono, pertanto, i livelli ai quali si può esprimere la sua diversità? Di primo acchito verrebbe da rispondere: una diversità tra i caseifici e i casari, tra le diverse stagioni e giornate, anche tra le differenti forme. Sì, perché anche due forme “gemelle”, ovvero fatte nello stesso giorno e uscite dalla stessa caldaia, possono risultare differenti tra loro al termine della stagionatura.

E ancora: quali sono i fattori che plasmano questa diversità?

Sono tanti e si combinano in modo originale per ogni formaggio il quale ha, quindi, la sua storia personale fatta di razze bovine, altimetrie e microclimi, erbe e fieni, persone e batteri, tecniche innovative e inveterate abitudini.

Proviamo ad orientarci, cercando di capire come le tante tessere di questo mosaico possano combinarsi, per dare origine ad un formaggio che ha sempre caratteristiche di “unicità” e quindi una non riproducibilità in serie.

Partiamo dal latte e da chi lo produce, la bovina. In tutto il comprensorio la razza più diffusa è la Frisona, la razza pezzata bianca e nera che rappresenta la vacca per eccellenza nell’immaginario collettivo. Questa razza d’importazione è una vera e propria “macchina da latte”, talmente perfezionata che, durante il corso del ‘900, ha scalzato tutte le antiche razze locali italiane. La quantità molto spesso, però, non è tutto. La differenza di produttività ha comportato una riduzione di concentrazione di proteine e grassi, che sono i composti che “fanno” il formaggio. Ciò nonostante è sempre risultato conveniente, in termini di resa casearia, allevare le Frisone. Negli ultimi anni la selezione genetica della Frisona ha addirittura consentito di recuperare, rispetto alle razze autoctone, anche in termini di percentuale di proteine e grassi, al punto che il confronto con razze come la Reggiana Rossa è impietoso in termini numerici (vedi tabella).

Razza bovinaProduzione media in kg di latte per lattazione% media di proteine% media di grassi
Frisona 100973,36%3,81%
Rossa Reggiana 58703,41%3,70%
Bruna74253,59%4,05%
Dati aggiornati al 2019 ( Fonti A.N.A.F.I., A.N.A.Bo.Ra.Re., A.N.A.R.B.)

Il latte della Rossa Reggiana, come quello di altre razze autoctone, presenta una variante genetica della sua caseina (della k-caseina in particolare), che gli conferisce qualità casearie ottimali, sia nella fase di coagulazione che nella successiva lavorazione della cagliata. Se da una parte ciò influisce positivamente sulla trasformazione del latte in formaggio, dall’altra non consente di evidenziare delle differenze organolettiche chiare e facilmente riconoscibili nel prodotto finito. In altre parole, non abbiamo elementi per affermare che un Parmigiano Reggiano prodotto con il latte di razze autoctone abbia, di per sé, una superiorità di gusto. Se le forme fatte con la Rossa Reggiana godono, nell’ambito di una produzione di nicchia, di un grande successo commerciale (pur se con un prezzo più elevato), ciò lo si deve ad altri motivi, per i quali lo storytelling ha svolto un ruolo fondamentale: si compra la storia e l’originalità del prodotto.

La vacca di razza reggiana, detta anche “vacca rossa” (foto Consorzio vacche rosse)

Il fatto è che il latte non è esclusivamente un prodotto dipendente della genetica dell’animale, così come il formaggio non è solo il risultato dell’abilità del casaro. Altri fattori intervengono e incidono sul gusto e, sicuramente, uno di questi è l’alimentazione.

Il disciplinare di produzione del Parmigiano Reggiano stabilisce, in maniera rigorosa, la provenienza dei foraggi e dei mangimi, vieta l’utilizzo di foraggi insilati ma lascia una certa libertà nella scelta del tipo di alimentazione. Riassumiamo per semplicità le tre tipologie più frequentemente riscontrabili:

  • Alimentazione a fieno. Si utilizzano foraggi essiccati di prati polifiti (con tante diverse erbe) o monofiti (spesso erba medica), mescolando differenti sfalci e tipologie di essenze foraggere. La dieta viene integrata con mangimi in base all’età, al momento della lattazione e alla produttività dell’animale.
  • Alimentazione con integrazione di foraggi freschi. La dieta descritta nel primo punto viene integrata con foraggi freschi, raccolti nel periodo primaverile-estivo. Questo tipo di dieta, più ricca in acqua, è preferita dai bovini che soffrono per le alte temperature estive e comporta differenze nel latte: a livello di lavorazione il casaro si deve adattare e questo fa sì che in molte realtà si preferisca usare fieno tutto l’anno per standardizzare la lavorazione. Mentre i composti odorosi dei foraggi evaporano facilmente durante l’essiccazione, l’erba fresca, coi fiori e le essenze aromatiche che contiene, arricchisce il formaggio di complessità olfattiva ed anche di colore.
  • Alimentazione a piatto unico (Unifeed). Vengono somministrati i foraggi insieme ai mangimi, mescolati e sminuzzati in modo da facilitarne l’assunzione e la digestione. L’Unifeed consente di aumentare l’apporto nutritivo e quindi le produzioni di latte, uniformandone le caratteristiche e limitando la variabilità stagionale dei foraggi.
L’alimentazione con foraggi freschi può rendere il Parmigiano Reggiano più interessante. Per gli aderenti al Consorzio della Vacca Rossa questo tipo di alimentazione è obbligatoria nel periodo estivo.

Nella nostra esperienza personale un Parmigiano Reggiano prodotto con solo latte di Unifeed ha un gusto decisamente mild, con toni dolci e senza spigolosità, risultando nettamente meno caratterizzato rispetto a uno prodotto con fieno, e inoltre ha  caratteristiche abbastanza costanti e riproducibili nel tempo. Possiamo affermare questo con un buon grado di certezza, avendo a più riprese confrontato campioni di formaggio da questi due tipi diversi di alimentazione, prodotti nello stesso caseificio (e quindi dalla stessa “mano”) e nello stesso giorno: ormai l’Unifeed lo indoviniamo quasi “ad occhi chiusi”. I formaggi estivi fatti con foraggio verde si staccano invece dal resto, hanno un bel colore giallastro, profumo spesso più intenso a parità di stagionatura, con note aromatiche spesso insolite e intriganti. Però sono anche i più variabili e a volte siamo anche incappati in prodotti con odori sgradevoli, ai limiti del difetto.

Aggiungiamo una variabile al discorso sull’alimentazione: il territorio. Come ben si sa il comprensorio del Parmigiano Reggiano è un fazzoletto di Emilia che comprende zone di pianura e aree appenniniche; per essere ancora più precisi la bassa pianura  fino a lambire il “grande fiume”, l’alta pianura collocata sulle conoidi alluvionali dei torrenti, le verdi colline che videro le gesta di Matilde di Canossa, fino ad una montagna con quote relativamente elevate. La variazione altimetrica determina l’esistenza di fasce ben distinte, con essenze foraggere diverse. Ciò non deve però trarre in inganno: a differenza delle Alpi qui non c’è il pascolo libero in alta quota, non ci sono gli alpeggi e il Parmigiano Reggiano di malga non esiste; anzi, in zone pedemontane la coltivazione dell’erba medica è preferita per la sua maggiore resistenza alla siccità. Per contro, in zone di pianura caratterizzate da un’abbondante presenza di acqua (ad esempio la bassa Valle dell’Enza), c’è una tradizione di prati stabili, ovvero agroecosistemi con elevata diversità di essenze vegetali (in alcuni casi oltre 100 specie differenti), che rappresentano il meglio che il comprensorio ha da offrire. In altre zone ancora, si possono trovare coltivazioni di prati polifiti con poche essenze foraggere selezionate, che consentono di avere una composizione equilibrata e costante del fieno.

Un’immagine di prati stabili in fioritura, a inizio estate (foto www.benvenutiacampegine.it)

Alla variabile foraggi, non di poco conto, si associa poi la presenza di ecotipi batterici specifici, come hanno dimostrato numerose ricerche scientifiche. La loro influenza sul gusto del prodotto finale è di grande rilievo, soprattutto in un formaggio come il Parmigiano Reggiano che è a lenta maturazione microbica. I batteri presenti, chiamati “filocaseari” per l’azione benevola svolta, smontano le proteine (proteolisi), determinando texture e sapore del formaggio, in particolare il quinto sapore, il cosiddetto “umami”: si arriva infatti a concentrazioni notevoli di glutammato, pari a 1.200-1.300 mg/100g! Durante la stagionatura si verifica anche una degradazione dei grassi (lipolisi), anche se di minore entità, che liberando gli acidi grassi volatili conferisce al prodotto la nota base di formaggio stagionato. Ecotipi differenti di batteri possono influenzare il profilo gustativo del prodotto, dando sfumature di gusto diverse. Quella microbiologica è una diversità legata in prima istanza ai foraggi, e quindi oltre che al tipo di essenze erbacee, anche al sistema di conduzione dei campi e alla bravura del coltivatore nel controllo della fienagione. Uomini e batteri, protagonisti delle diversità di gusto.

Il Parmigiano Reggiano in stagionatura, fase in cui si sviluppa, grazie all’attività microbica ed alla degradazione delle proteine, un forte sapore “umami” (evidenziato dalla parola in giapponese), il quinto sapore (foto Paula Gonzalez Thomas)

Finito? No, ci spiace.

Per quanto riguarda il latte si riscontra anche una notevole correlazione tra lo stress psico-fisico delle bovine e la sua qualità. Il tipo di stabulazione libera e la presenza di elementi strutturali che limitano l’eccessivo caldo in stalla sono, per esempio, fattori che migliorano notevolmente i parametri qualitativi. Quella invernale, quindi, è la stagione migliore per i bovini e non è un caso se in passato si definiva il “vernengo” (Parmigiano Reggiano prodotto  in inverno) come il migliore dell’annata. Oggi sappiamo che le temperature estive portano gli animali ad una maggiore assunzione di acqua che, in parte, diluisce il latte e lo rende in gergo da caseificio “più slegato”, necessitando di particolare attenzione da parte del casaro durante la lavorazione. Il rovescio della medaglia però può essere rappresentato dai foraggi verdi che abbiamo d’estate, in particolare i primi sfalci, ricchi di fioriture: il formaggio estivo, chiamato “maggengo” in passato, con la maggior padronanza tecnica ed i sistemi di controllo dei parametri di caseificazione, può oggigiorno regalarci formaggi molto interessanti.

Le cose non sono mai del tutto bianche o nere, pertanto.

Proprio colui che è addetto alla caseificazione è il prossimo indiziato come variabile che influenza la qualità del Parmigiano Reggiano.

Proviamo a pensare ad una persona che, con le proprie mani, deve interpretare il latte giorno per giorno, 365 giorni all’anno, sapendo che per una qualsiasi delle ragioni già illustrate, potrebbe non avere il latte uguale al giorno prima e, quasi certamente, disomogeneo tra un allevamento e un altro che conferiscono al caseificio. Più di 300 sono i caseifici e i rispettivi casari nel comprensorio e, seppur le fasi di produzioni siano le stesse, ognuno di questi casari si porta dietro un background, una vita, una motivazione e un livello di stanchezza psico-fisica differente. È facile comprendere che una qualche differenza dovuta al fattore umano possa evidenziarsi.

Gli strumenti tecnologici si sono evoluti a tal punto che, in qualche caseificio, la lavorazione è in parte automatizzata, come ad esempio nella delicata fase di spinatura (la rottura della cagliata), alleviando le fatiche del casaro da una parte, e garantendo maggiore costanza tra le forme dall’altra. Ma al tempo stesso esistono realtà più “tradizionali”, in cui la rottura della cagliata viene fatta ancora in modo completamente manuale. Questo può essere un ulteriore fattore di differenzazione, in quanto con la spinatura automatica la dimensione dei coaguli risulta più omogenea, mentre nell’altro caso è tutto lasciato alla sensibilità dell’operatore. Ci sono ad esempio casari che rompono la cagliata fino alle dimensioni canoniche del “chicco di riso”, come da manuale, altri che spinano un po’ più grande, asciugando poi di più in granuli in fase di cottura. Ma facciamo qualche altro esempio. Le vasche di affioramento della crema (o panna) tradizionali, prive del controllo del tenore di grasso, lasciano spazio alle variazioni di uno dei fattori che più incide sul gusto e la struttura. Esistono alternative moderne che offrono un maggior controllo di questo parametro, rendendo più omogenea sia la percentuale di grasso che la resa in caldaia (in quanto c’è un rapporto massimo fissato tra grasso e caseina del latte).

Parte del siero raccolto dalle diverse vasche viene conservato fino al mattino successivo, andando incontro ad una fermentazione che crea il “sieroinnesto”, coltura microbica naturale che diventa elemento fondamentale di caratterizzazione e di differenziazione per questo formaggio.

I microrganismi, infine, che sappiamo svolgere un ruolo fondamentale nella produzione del Parmigiano Reggiano al punto da poterli definire i “casari microscopici”, devono essere “allevati” in caseificio, al fine di poterne garantire una consistente presenza nel formaggio che va a stagionare. I batteri presenti nel latte, provenienti in prima istanza dai foraggi e poi dall’ambiente di lavorazione, vengono selezionati attraverso la fase di cottura della cagliata, dove la temperatura raggiunta di 55°C permette di discernere i “buoni” dai “cattivi”: a fine cottura si preleverà il siero dalle caldaie, riponendolo in apposite fermentiere, dove i microrganismi filocaseari avranno modo di proliferare e riprodursi fino alla lavorazione del giorno seguente, andando a formare un inoculo di fermenti utili, che varia da un caseificio all’altro. La maggior parte dei caseifici oggi usa grandi fermentiere in metallo, alcuni però le preferiscono statiche e non riscaldabili ma solo coibentate, altri invece hanno fermentiere in cui si possono programmare i profili di temperatura e l’agitazione della massa del siero. Ci sono poi rari nostalgici delle damigiane in cui si riponeva un tempo il siero durante la notte, sostenendo che possono ancora oggi dare i risultati migliori. È evidente che anche questi fattori possono cambiare la natura del “sieroinnesto” e quindi, tramite i microrganismi, del formaggio.

La stagionatura è un fattore di importanza essenziale per lo sviluppo del profilo sensoriale del Parmigiano Reggiano, ma non incide molto nel differenziare tra loro i formaggi dei diversi caseifici.

Una volta prodotta, sulla forma interviene poi il “tempo”, quello con la “T” maiuscola: è certo questo il fattore più determinante per il gusto del prodotto finito, perché è solo col tempo che avvengono tutte le trasformazioni chimico-fisiche che danno origine al Parmigiano Reggiano. Il “tempo” è, però, probabilmente il fattore che crea meno differenziazione tra i formaggi di caseifici diversi: due anni su di asse di stagionatura sono sempre gli stessi, indipendentemente dal caseificio.

In definitiva ogni forma, come fosse viva, elabora gli input ricevuti, rimescolando le carte in un “gioco” davvero articolato. E quindi, effettivamente, ogni pezzo di Parmigiano Reggiano racchiude una piccola e differente storia di gusto, che parte da lontano e non è riproducibile allo stesso modo una seconda volta. Siamo certi che, al prossimo assaggio di Parmigiano Reggiano, sforzandovi di visualizzare la grande complessità di fattori che sta dietro alla sua bontà, ricorderete lo slogan pubblicitario che ben racchiude la natura artigianale e la diversità intrinseca di questo prodotto: “Il Parmigiano Reggiano non si fabbrica, si fa”.

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